Nel caldo pomeriggio del 10 giugno di ottandue anni fa, dal balcone di piazza Venezia il duce ci scagliava la con la sua solita protervia contro le nazioni plutocratiche, così almeno le chiamava lui. Avremmo dovuto vincere battaglie, conquistare popoli e territori, abbattere nemici; abbiamo portato a casa paura, fame, violenza e morte. L’Italia contò 472.000 vittime, di cui 153.000 civili. Tra questi, centinaia di settimesi rimasti nei Balcani, in Africa, in Russia, dove contammo anche alcuni ragazzi dispersi, come fossero diventati polvere.
Il 9 giugno, ultimo giorno di pace, una processione pervasa da cattivi presagi aveva attraversato le strade del Fornacino, era la festa della borgata. Festa per modo di dire, c’era puzza di bruciato lontano un chilometro, e il giorno dopo, infatti, i settimesi vennero convocati in piazza per l’annuncio via radio: “La dichiarazione di guerra è stata consegnata agli ambasciatori di Francia e Inghilterra!”
Bell’affare! Un paese di contadini quasi tutti analfabeti, con l’esercito allo sbando ancora prima di cominciare, dichiarava guerra alle nazioni più forti, ricche e meglio armate del mondo… dove tra l’altro vivevano milioni di suoi migranti. Proprio a Settimo già oscurata passarono i montanari delle valli alpine sfollati in previsione dell’attacco contro la Francia, la “pugnalata alla schiena”, così ancora oggi la definiscono oltralpe.
Noi che per fortuna la guerra l’abbiamo solo letta sui libri o vista al cine sappiamo che la speranza in un mondo migliore non morì mai. Le genti di quegli anni non lo sapevano ancora, eppure furono così forti da stare dentro una tragedia più grande di loro e farla diventare futuro. E così mature da tirar su l’epopea partigiana, rimettendoci all’onore del mondo. Quello che stiamo passando oggi non è un bel momento, ma da quella vicenda là, che fu molto più dolorosa delle nostre, possiamo imparare che la storia di un popolo, il suo futuro, le speranze, i percorsi politici e sociali vanno immaginati dalle persone illuminate, mai dai dittatori. Oggi non abbiamo Adenauer, De Gasperi e Schumann, i leader che fecero l’Europa, ma se siamo qui a raccontarla è perché loro e i loro popoli hanno creduto nella pace, nel dialogo e nella cultura. Nell’unità a qualunque costo: è ciò che dobbiamo fare noi.