Per celebrare (a mio modo) la nascita, cent’anni or sono, del Partito comunista d’Italia, poi Partito comunista italiano, in attesa delle preannunciate novità editoriali, ho cominciato a leggere la biografia di Antonio Gramsci, non quella notissima di Giuseppe Fiori per Laterza (di cui mio padre aveva l’edizione del 1973), bensì il «Gramsci. Una nuova biografia» di Angelo D’Orsi, uscito nel 2017 (a ottant’anni dalla morte) per Feltrinelli, ora alla sua terza ristampa. A questo testo, ho aggiunto le memorie (godibilissime) di Massimo Caprara, uscite nel 1997 per il Saggiatore. Segretario personale di Palmiro Togliatti per circa vent’anni, Massimo Caprara, che nel 1969 venne espulso dal Pci insieme al gruppo del Manifesto, racconta con dovizia di particolari e rivelazioni (?) la vita a «Botteghe Oscure», la sede del Pci dal 1946, che riuscì a sopravvivere al partito per essere poi venduta nel 2000.
Così, senza troppo volere, mi sono imbattuta nel convegno via web lanciato da D’Alema tramite la Fondazione Italianieuropei. Gli invitati, per la maggior parte protagonisti attuali della scena politica, Dario Franceschini e Roberto Speranza (collegati dai rispettivi uffici ministeriali), Matteo Renzi (un po’ irrequieto e a tratti ingrugnito) e Nicola Zingaretti (dall’aria assonnata, imbambolata, forse soggiogato dall’eloquio dalemiano) si sono confrontati con Giuli
ano Amato e lo stesso D’Alema, autodefinitisi outsider della politica, la giornalista Ida Dominijanni del Manifesto e la politologa Nadia Urbinati. Insomma, tutti i convenuti sembravano davvero impegnati a far girare per bene le rotelle.
Il fattor comune è presto detto: c’è bisogno di ideologia (Nadia Urbinati), di definire un campo ideologico e una narrativa del mondo dal punto di vista valoriale, che abbia come orizzonte «l’articolo tre della Costituzione, primo e secondo comma, perché il primo da solo non è sufficiente».
Una voce stonata, il Renzi, che s’è messo a parlar di conquistare il centro, come unica possibilità di tornare a vincere, e il D’Alema (pure con una nota autocritica) a dirgli su «tutti abbiamo ritenuto che l’ambizione maggioritaria potesse essere interpretata attraverso un appannamento della nostra identità, in funzione dell’assunzione di un ruolo maggioritario. Noi, cercando il 51 per cento, ci siamo persi anche quel 30 per cento che dovremmo efficacemente rappresentare». Parole sante baffino! E lui, insistendo: «quello di cui si sente la mancanza è la presenza di una forza organizzata, coesa… c’è bisogno di una visione del futuro come capacità di orientare l’azione politica, di creare tensione tra pratica e utopia, che costituisce una delle ragioni per cui la politica appassiona». Ben detto! E ancora: «La rete non è uno strumento neutro che connette tra loro gli individui. La rete è un luogo dove si svolge il conflitto, politico, culturale, e bisognerebbe starci in modo organizzato».
E poi: «Alle nostre spalle ci sono una serie di esperienze politiche che non hanno avuto successo. Però ci siamo». A l’è vera! Ma la più bella che ha detto è questa: «Io partirei dalle idee, dal confronto delle idee, dallo sforzo di enucleare una visione della società, un insieme di valori intorno a cui costruire…». òmmi Nosgnor! L’è pròpi lì ch’a robata l’aso!