Introdotto in Italia con una legge del 2017 lo smart working, o lavoro agile, ha cominciato la sua lenta ascesa nel mondo delle aziende pubbliche e private fino a trovarsi improvvisamente ad avere un ruolo salvifico provvidenziale per datori di lavoro e dipendenti, entrambe le categorie sfidate dalla crisi del Covid-19.
Se fino ad oggi era un’opzione, lasciata alla libera scelta delle aziende e dei lavoratori, con l’epidemia il lavoro da casa è diventato una soluzione caldamente raccomandata, quasi un obbligo per contenere il contagio. Uno di quei casi in cui l’emergenza, di colpo, accelera i passaggi per la diffusione di qualcosa di nuovo che in tempi normali e “sani” avrebbe richiesto molto più tempo prima di convincere tutti.
Secondo uno studio di Confindustria, nel 2019 l’8,9% delle aziende associate ha offerto forme di “lavoro agile” facendo registrare un incremento del 4% rispetto al 2018. Le imprese più grandi, quelle con più di cento addetti, sono quelle più pro-attive e inclini a seguire la nuova tendenza del lavoro flessibile, pesando per il 20% del campione di riferimento. Per quelle più piccole si pone spesso anche un problema di mancanza di strumenti (pc portatile, applicazioni per chat e condivisione interna di file, schermo, server). Non sono, o meglio non erano grandi numeri quelli della scelta per l’home working.
Nel 2017, d’altra parte, l’Italia era l’ultima nell’Unione Europea in quanto a tasso di diffusione dello smart working (fonte “greatplacetowork.it”), mentre in paesi come Stati Uniti e Giappone le percentuali erano le più alte al mondo e si incoraggiava il ricorso al telelavoro già da molto tempo, non solo per motivi di emergenza sanitaria, ma anche per ridurre i tempi di spostamento, abbattere l’inquinamento, ridurre gli spazi negli uffici.
Negli USA addirittura si sta già sfruttando la tecnologia a ologrammi per proiettare l’immagine di se stessi lontano nello spazio. Ora la situazione in Italia è cambiata e probabilmente cambierà sempre di più, come parte di quel mutamento socio-culturale che il virus sta imponendo, a detta di sociologi, politologi e uomini d’affari.
Mentre il Presidente del Piemonte Cirio a metà marzo ha stanziato 4,5 milioni di euro per finanziare il lavoro a distanza come “ulteriore supporto alla comunità piemontese in questo momento di grave crisi”, l’assessore al lavoro della regione Piemonte ha commentato in un comunicato stampa dal titolo “Smart working, antidoto contro il contagio ma anche grande opportunità per il lavoro”: “Oggi, come dicono i medici, stare a casa è la miglior soluzione per fermare questo virus. Ma, in futuro, potenziare il telelavoro – laddove sia possibile – potrà portare benefici per imprese e lavoratori, evitare lo spopolamento delle nostre montagne e delle nostre valli e anche sostenere le famiglie e la natalità”. Insomma, lo smartworking di botto fa bene per un sacco di motivi e tra i suoi vantaggi c’è sicuramente la riduzione dello stress da pendolarismo e la semplificazione della vita per le mamme. Ma non c’è un rovescio della medaglia? A quanto pare sì. In una recente ricerca effettuata da One poll sono emersi degli aspetti negativi: la mancanza di socialità con i colleghi e meno occasioni di contatto umano, oltre al timore per una più difficile separazione tra lavoro e vita privata sarebbero i limiti rilevati dagli intervistati. In un articolo della rivista americana “TIME” (ultimo numero di aprile), dal titolo “Does remote work actually work?” la professoressa di psicologia e scienza del cervello Thalia Wheatley, del Dartmouth College, sostiene che “gli schermi ci distanziano”. Inoltre, si riporta che società come Best Buy e Yahoo dopo alcuni anni di smart working hanno detto ai loro impiegati di tornare in ufficio. In tempi di corona virus non possiamo farne a meno, ma in futuro, quando si potrà scegliere, forse non l’avremmo mai ammesso, ma cercheremo più contatto con i nostri colleghi.