Stiamo vivendo in un momento che molti di noi avrebbero potuto considerare frutto della mente di uno sceneggiatore alle prese con la scrittura di un film distopico oppure, con la fervida immaginazione di uno scrittore. Purtroppo non è così. In questo periodo di quarantena (parola che prima di questa situazione non ho mai sentita applicata alla mia realtà) abbiamo l’occasione di guardare tutta questa storia con un occhio esterno, grazie, appunto, al frutto della mente di uno sceneggiatore e alla fervida immaginazione di uno scrittore.
Steven Soderbergh, regista, sceneggiatore e produttore. Nell’orami lontano 2011 fece uscire il suo film “Contagion”. Le analogie con la fittizia realtà del film e la nostra sono disarmanti.
Il film racconta il diffondersi di un virus nato in Cina, derivante dal pipistrello e il maiale. Al di là dell’aver azzeccato il paese natale del virus, Cina, è impressionante vedere la reazione politica e sociale degli stati a questa nuova epidemia: dalla quarantena in casa, alla corsa insensata ai supermercati fino ad arrivare ai limitati spazi per gestire i malati. In maniera veritiera il regista ci fa osservare le vicende di singole persone alle prese con la loro vita condizionata dal virus.
Ci sono ovviamente delle distinzioni da fare: il virus presente nel film ha un tasso di mortalità ben più alto del COVID-19. Soderbergh non manca di sottolineare una nota amara della realtà: gli ultimi rimarranno sempre gli ultimi. Nel film seguiamo anche le vicissitudini di un piccolo villaggio cinese povero. Gli abitanti vengono lasciati a loro stessi, persino dopo la scoperta di un vaccino non riescono a ricevere le cure adeguate per sopravvivere. Dà da pensare, sopratutto nei momenti in cui condividiamo la nostra solidarietà con post sui social e musica dal balcone, dimenticandoci che nessuno vuole stare in fondo alla fila, tutti noi vogliamo essere primi.
Se Steven Soderbergh cerca di analizzare la reazione da un punto di vista più istituzionale e politico, lo scrittore portoghese José Saramago si prefigge l’arduo e riuscito compito di sviscerare l’animo umano e di far scoprire al lettore quanta poca distanza c’è tra l’uomo e il regno animale.
Cecità è il libro in questione.
Nel mondo scoppia un’improvvisa epidemia, l’unico sintomo è la cecità. Il virus prende il nome di Mal Bianco, per via della spessa patina bianca che sostituisce la vista dei contagiati. Il governo, per impedire che ci siano ulteriori contagi, rinchiude tutti gli infetti in un manicomio abbandonato.
Fin da subito i malati vengono lasciati a loro stessi, controllati da soldati che non si fanno scrupoli a esplodere colpi contro di loro e con le razioni di cibo promesse che iniziano a scarseggiare. E’ qui che Saramago ci fa capire che quel confine, di cui noi ci vantiamo tanto essere netto, tra uomo e animale non è che una mera sbiadita sbavatura di circostanze storiche. Osserviamo dei ciechi, tutti nella stessa situazione: iniziare a far uscire le loro pulsioni in maniera incontrollata.
Un gruppo si inizia a impadronire delle scorte di cibo, sono disposti a condividerle, ma in cambio vogliono qualcosa, vogliono donne. Quel concetto Freudiano, che è la libido, si manifesta senza freni una volta che quelle immaginarie regole di convivenza sociale sono sparite. Ma questa è solo una delle tante cose di cui è capace l’essere umano e che Saramago ci mostra in maniera così vera nel suo libro.