Avevo già raccontato delle Cartiere Burgo, una delle quattro opere realizzate in Italia dal grande architetto brasiliano Oscar Niemeyer (il progettista della capitale Brasilia, per intenderci).
Durante l’edizione torinese di Open House, l’opera è stata una delle architetture più visitate dell’intera manifestazione. Per la visita era necessaria la prenotazione e i posti disponibili si sono esauriti nel giro di pochi minuti. Durante il weekend la fila dei visitatori è stata costante. Molti che non avevano prenotato hanno comunque tentato la sorte, e sono stati certamente accontentati, anche grazie alla disponibilità degli organizzatori e dei volontari.
In ogni caso chi ha avuto la fortuna di visitare le Cartiere ha potuto assistere ad uno spettacolo eccezionale e inatteso. Inatteso, perché gli spazi interni sono molto ben conservati; alcuni ambienti mantengono persino gli arredi originali; quando si entra si ha la sensazione di entrare in un futuro antico; gli ambienti sono quelli del modernismo pop degli anni 60; ma è anche lo stesso design che ha fatto da scenografia a innumerevoli film di fantascienza. Erano anni di positivismo, si credeva nel futuro, si costruiva letteralmente il futuro.
Una visita eccezionale anche grazie a Fabio, che lavora presso le Cartiere come custode, e che ci ha fatto da guida; nonostante la modestia, ha dimostrato di conoscere benissimo gli spazi che custodisce raccontando i dettagli e le caratteristiche del fabbricato, dagli aspetti tecnici e impiantistici, alla organizzazione del lavoro fino allo spirito che ha guidato il disegno e la concezione del progettista: una unione tra moderno funzionalismo e una visione mistica della architettura.
L’edificio si presenta come un volume chiuso rispetto all’esterno, quasi respingente; una forma semplice ma molto forte. Da fuori si osserva una ruota dentata adagiata su un piccolo rialzo verde. In origine di fronte al fabbricato era presente uno specchio di acqua, utile come riserva idrica antincendio, ma anche come moltiplicatore visivo della forma meccanica che l’Architetto voleva dare all’opera.
“La casa è una macchina per abitare” diceva Le Corbusier. L’architetto svizzero intendeva non tanto il fatto che la forma dell’architettura dovesse somigliare a una macchina, quanto il fatto che le forme e le architetture dovessero rispondere a un preciso sistema organizzativo dello spazio, in grado di guidare e coinvolgere il movimento di chi entra in relazione con le opere.
È quello che avviene con le Cartiere. Il susseguirsi degli spazi che si è portati ad attraversare entrando nell’edificio per arrivare fino al piano nobile non sono altro che una concatenazione (meccanica) di suggestioni ed esperienze visive costruite apposta per dare la sensazione di un sistema unico ed organico perfettamente funzionante e in equilibrio dinamico con sé stesso. Un sistema meccanico che tuttavia allude ad una visione del mondo organicamente mistica dove ogni elemento, ogni ambiente vive nella propria unicità ma in relazione alla propria funzione all’interno dell’intero edificio.
Un’opera decisamente eccezionale che avrebbe le carte in regola (è proprio il caso di dirlo) per diventare monumento simbolo del territorio compreso tra San mauro e Settimo: un’area altrimenti priva di emergenze che non siano prese in prestito da Torino. Un’opera che può farsi simbolo della storia recente di questa periferia, cresciuta a dismisura durane il boom industriale eppure così dinamica e densa di vita.
Le Cartiere, come è noto sono inutilizzate e sembrerebbe che la proprietà sia in cerca di un acquirente. Vengono usate saltuariamente come set cinematografico ed aperte solo in casi eccezionali (come il caso meritorio di Open House) ma è evidente che se si vuole preservare questa architettura occorre cominciare a immaginare una destinazione d’uso definitiva e coerente con il suo valore culturale.
Le Cartiere sono già state una volta il fulcro di un progetto che all’epoca aveva vinto un concorso presso il MIBACT. Un progetto di Annalisa Romani e Monica Sapino, che immaginava la sistemazione a verde dell’intero territorio circostante, integrandosi con la Corona Verde. Un progetto rimasto nel cassetto; forse per incomprensione con il comune di Torino, coinvolto nel progetto, forse più semplicemente per disinteresse; un progetto che potrebbe essere rivisto, riadattato.
Si tratta di un esempio come un altro per dire che occorre cominciare a pensare a cosa fare prima che l’attuale proprietà venda tutto senza avere idea di cosa ne vorrà fare il prossimo proprietario.
Il mio invito è quindi all’amministrazione di San Mauro, che si ritrova questo gioiello in casa, a non lasciare le cose al caso. Un invito a governare il futuro di questa architettura. C’è bisogno di cominciare a occuparsene; incontrate i proprietari; ragionare sulle possibili destinazioni d’uso e le eventuali trasformazioni; coinvolgere altri enti, ministeri, fondazioni; trovare acquirenti qualificati.
Insomma prendersene cura.
Possibilmente prima che qualcuno decida di farci un centro commerciale.