Al di là della grande confusione che regna intorno al Covid-19, tra scienziati in disaccordo tra loro e politici che hanno paura di decidere troppo o troppo poco, il dilemma è questo: è meglio (è meno peggio) prolungare ancora di qualche settimana il confinamento, per far scendere ancora i numeri dei contagi e abbassare la probabilità di una recrudescenza dell’epidemia ma con pesanti effetti su un’economia già prostrata, o è meglio essere liberi di tornare a una vita e attività (lavorativa compresa) più o meno “normale”, ma con il concreto rischio di ammalarsi – in tanti, tutti insieme – e magari di morire?
Perché alla fine, al di là delle scelte dei singoli Paesi, con alcuni che non hanno mai interrotto le attività, altri che hanno fatto marcia indietro e altri ancora che si sono sostanzialmente allineati alle scelte italiane, il vero nodo è questo. Da un lato è evidente (tranne a qualche politico in crisi di consensi) che non si può riaprire tutto da un giorno all’altro come se fossimo a febbraio, perché altrimenti l’estate degli ospedali e degli obitori sarebbe peggio della primavera. Dall’altro non si può prolungare sine die il lockdown pensando che lo Stato possa farsi carico per molti mesi a venire del mantenimento di milioni di cittadini; oltre al fatto che – dopo due mesi di confinamento – c’è chi psicologicamente non ce la fa più a stare a casa: ci sono situazioni al limite della pacifica convivenza.
Tirato per la giacca da un lato dal mondo della sanità e della scienza («cautela! prudenza!») e dall’altro da quello dell’economia e della produzione («andando avanti così qui si rischia di fallire tutti!»), il Governo ha quindi scelto di “riaprire qualcosa” (con forti pressioni di alcune categorie per “riaprire di più, e prima”) sperando che la curva dei contagi non risalga troppo in fretta: si cammina sullo stretto crinale del salvare (un po’) la borsa sperando di non perdere troppe vite. La “normalità”, comunque, è ancora lontana.