Se nei primi due mesi dell’epidemia le regioni più colpite sono state prima il Veneto e poi la Lombardia e l’Emilia Romagna, tra la fine di aprile e l’inizio di maggio la regione che necessita di maggiori attenzioni è il Piemonte, dove il contagio sembra diffondersi in tempi diversi rispetto alle altre aree del Nord Italia.
Dal 25 aprile, infatti, il Piemonte è la seconda regione italiana per numero di casi di Covid-19 registrati ufficialmente dall’inizio dell’epidemia: ha superato l’Emilia-Romagna, e ora (dati del 1° maggio) ha 26.684 casi accertati, pur rimanendo al terzo posto per il bilancio dei decessi confermati, che sono stati finora 3.003 contro i 3.512 dell’Emilia-Romagna. Nelle ultime due settimane di aprile i numeri quotidiani sulla diffusione del coronavirus in Piemonte sono stati più preoccupanti che altrove: è infatti la regione italiana che ha registrato il maggiore aumento percentuale dei casi totali e degli “attualmente positivi”.
Il Piemonte ha raggiunto i 1000 casi confermati di Covid-19 il 15 marzo, quattro giorni dopo il Veneto, una settimana dopo l’Emilia-Romagna e due settimane dopo la Lombardia. E ora, superata la fase di massima emergenza, l’andamento dei contagi sembra confermare questa tempistica differente: come ha detto anche il presidente della Regione, Alberto Cirio, in Piemonte «la curva epidemica è in ritardo rispetto ad altre regioni del Nord».
I deceduti e i “positivi”
In Piemonte i morti con Covid-19, dal 16 al 29 aprile, sono stati 909: in numeri assoluti, soltanto la Lombardia ne ha avuti di più (2071), mentre in Emilia-Romagna sono stati 669. In percentuale, i decessi nelle ultime due settimane di aprile sono cresciuti in Piemonte del 43%: un incremento secondo soltanto a quello del Veneto (47%).
I casi totali accertati sono aumentati nello stesso arco di tempo di 6753 unità, cioè del 35%, più che nelle altre regioni. La seconda è la Liguria, con il 31% dei casi totali in più, pari a 1.850 persone. In Lombardia e in Emilia-Romagna sono aumentati rispettivamente del 19 e del 17%.
Ma soprattutto, nelle ultime due settimane di aprile, il Piemonte è stata la regione in cui i pazienti definiti come “attualmente positivi” sono aumentati di più, in percentuale: 1738, equivalenti al 13%. In numeri assoluti ha registrato un aumento superiore soltanto la Lombardia, con 3032, il 9% in più del 16 aprile.
Prendendo in considerazione gli ultimi venti giorni del mese, i dati sono ancora peggiori: i casi totali in Piemonte sono aumentati del 78%, contro il 57% della seconda regione con il maggiore incremento percentuale, la Liguria. I morti sono aumentati del 107%: solo la Toscana si avvicina, con il 103%. Gli attualmente positivi sono aumentati invece del 37%, anche in questo caso l’aumento percentuale più alto (il secondo è quello del Lazio, con il 28%).
Nelle province
La situazione non è omogenea in tutta la regione: la provincia più colpita, sia come contagi che come morti, è comprensibilmente quella più popolosa, quella di Torino, che stacca nettamente la seconda, quella di Alessandria. I dati sono riportati nella tabella in alto a destra.
I tamponi
Una prima spiegazione di questi numeri è da ricercare nei tamponi: a fine aprile in Piemonte sono aumentati notevolmente e più che nel resto d’Italia, e questo potrebbe spiegare perché vengono scoperti – in proporzione – più casi che altrove. E’ noto da tempo che i numeri ufficiali rappresentano soltanto una parte del contagio, la cui estensione reale è molto maggiore; quindi se si scoprono più casi perché si fanno più tamponi, è plausibile che la ragione sia che in precedenza erano di più i malati che sfuggivano al conteggio ufficiale.
Nelle ultime due settimane il Piemonte ha fatto più di 70 mila tamponi; tra le regioni del Nord Italia, è quella che ha aumentato maggiormente, in proporzione, il numero dei test. Il presidente della Giunta regionale Alberto Cirio ha spiegato che «a febbraio i laboratori che analizzavano i tamponi erano due, oggi sono 18 e in pochi giorni diventeranno venti. È il motivo per cui il Piemonte non è riuscito a raggiungere subito i numeri di tamponi delle altre regioni, ma lo ha fatto in poco tempo».
Nelle case di riposo
In parte i nuovi tamponi riguardano le Rsa, dove sono in corso test “a tappeto” a partire dalle residenze dove sono stati registrati contagi. L’ultimo aggiornamento sui risultati fornito dall’Unità di crisi della Regione si riferisce al 20 aprile: erano stati fatti test nell’80% delle strutture, e dei 14.703 tamponi analizzati circa un terzo era positivo (pari al 35% degli ospiti e al 23% del personale). Il giorno dopo, l’assessore regionale alla Sanità Luigi Icardi aveva stimato che i positivi nelle Rsa fossero il 60%, e che per questo motivo i contagi calavano meno che in altre regioni. «Sappiamo di andare nei focolai dell’epidemia – ha detto Icardi – ed è per questo che il numero dei casi positivi in Piemonte è ancora così alto».
Questo sforzo viene mostrato anche dal rapporto tra tamponi effettuati e positivi rilevati. Se alla fine di marzo in Piemonte veniva registrato un positivo ogni tre-quattro tamponi effettuati, negli ultimi giorni questo rapporto è cambiato: viene rilevato un positivo ogni dieci-quindici tamponi, segno che si stanno testando molte più persone di prima.
Con le Rsa, comunque, il Piemonte ha avuto guai e problemi simili alla Lombardia: il 20 marzo, per esempio, la Regione emise una delibera simile a quella molto discussa emanata dalla Lombardia per chiedere alle Rsa di accogliere pazienti Covid-19 in via di guarigione. Nelle settimane seguenti alcune Asl hanno presentato nuovamente alle Rsa la stessa richiesta.
Michele Assandri, segretario regionale di Anaste, associazione che rappresenta le imprese che gestiscono strutture per la terza età, ha dichiarato che «all’inizio di aprile le Asl hanno chiesto alle Rsa di dotarsi di un piano per la prevenzione e la gestione» dell’epidemia: quando le case di riposo hanno risposto di non essere in grado di elaborarlo «sono state minacciate dalle Commissioni di Vigilanza che a emergenza finita avrebbero fatto in modo di togliere le convenzioni».
I medici di famiglia

Anche nei problemi dovuti all’epidemia il Piemonte sembra aver seguito con un po’ di ritardo le altre regioni del Nord Italia; e gli errori, gli ostacoli e gli intoppi nel contenimento del Coronavirus sembrano in particolare simili a quelli della Lombardia. I medici di famiglia hanno segnalato fin dall’inizio la mancanza di dispositivi di protezione individuale, l’impossibilità di richiedere tamponi per migliaia di pazienti sospetti, e in certe province anche le difficoltà nelle comunicazioni con le Asl, tutti sintomi di un indebolimento della medicina territoriale.
Uno dei problemi più denunciati è stato la scarsa efficienza, in alcune province, dei sistemi con cui i medici possono segnalare alle Asl i casi sospetti e che secondo loro richiedono il tampone. In un caso si è scoperto che il sistema di ricezione delle mail di un’Asl cancellava automaticamente quelle non lette dopo un certo numero di ore, causando quindi lo smarrimento di centinaia di segnalazioni.
Roberto Venesia, medico di famiglia a Ivrea e segretario regionale della Fimmg (Federazione italiana medici di medicina generale), nei giorni scorsi ha dichiarato che nonostante siano passate molte settimane dalle prime segnalazioni «non registriamo l’efficienza e funzionalità che dovrebbe esserci, e c’è ancora necessità di fare parecchi miglioramenti». Dal 10 aprile la Regione si è dotata di un sistema unico per queste segnalazioni, che ha sostituito o affiancato quelli delle singole Asl: «ma questo non ha migliorato molto la situazione perché si registrano ancora molte difficoltà». Tra il 15 e il 17 aprile Venesia ha condotto un sondaggio tra un campione di medici: quelli che hanno risposto hanno riportato 791 segnalazioni di pazienti sospetti che non sono stati presi in carico dalle Asl. Rapportando il campione alla popolazione, si ottiene una stima di oltre 10 mila casi.
Anche le Usca, cioè le squadre speciali di medici – molto spesso giovani – istituite a inizio marzo dal Governo per le visite a domicilio dei casi sospetti e confermati di Covid-19, «sono partite in ritardo» secondo Venesia. Ora in certe province funzionano bene, ma il personale è comunque insufficiente: al 25 aprile c’erano 83 medici nelle Usca sui quasi 200 che richiederebbe la popolazione piemontese.
I nuovi contagi: dove?
Nelle ultime tre settimane il numero delle persone risultate positive al coronavirus in Italia è complessivamente diminuito, ma ancora oggi si registrano quasi sempre più di duemila nuovi contagi al giorno. In numeri assoluti, le regioni in cui si registrano più nuovi casi sono sempre Lombardia, Piemonte ed Emilia-Romagna, mentre le due province con la curva dei contagi più preoccupante sono Milano e Torino (fino a oltre 400 nuovi casi al giorno).
Gli attuali duemila casi registrati al giorno sono più di quelli registrati nei giorni di marzo immediatamente precedenti al lockdown nazionale, quando però si facevano molti meno test di oggi: più o meno cinquemila al giorno, contro i 60 mila raggiunti in questo periodo. Nonostante questo non sono pochi, visto che da quasi due mesi l’Italia è in lockdown. Ebbene: dove si sono contagiati i nuovi positivi, considerato che gli spostamenti sono molto limitati, le misure di distanziamento interpersonale per lo più rispettate, le scuole e le università riapriranno solo a settembre, e molte attività economiche temporaneamente chiuse?
Partiamo dai dati ufficiali, cioè quelli che la Protezione Civile diffonde quotidianamente, che sono forniti dalle Regioni e che – come ormai si è capito – sono da prendere con molta cautela.
La voce dei “nuovi positivi” nei dati della Protezione Civile riguarda solo le persone che sono risultate positive a un tampone, e finora in molte regioni il tampone è stato fatto solo ai pazienti ricoverati in ospedale – quindi i più gravi – e in alcuni casi a particolari categorie protette. Nelle ultime tre settimane il numero di tamponi effettuato nelle regioni più colpite è aumentato in maniera graduale, così come è diminuita progressivamente la pressione sugli ospedali, sotto forte stress nelle prime fasi dell’epidemia. È stato quindi possibile cominciare a fare i tamponi anche fuori dagli ospedali, andando a cercare i casi positivi tra le strutture e le categorie più a rischio: in particolare – come si è detto – nelle Rsa e tra gli operatori sanitari, i più esposti all’infezione. Ciò significa che tra i nuovi positivi comunicati dalla Protezione Civile nelle ultime tre settimane non ci sono solamente i nuovi contagiati, ma anche persone che avevano già contratto il virus e che ora vengono incluse nei dati ufficiali perché finalmente sottoposte a tampone. Il numero dei nuovi contagiati, quindi, va letto insieme a quello sulle persone ricoverate (che sono sempre di meno) e a quello dei tamponi effettuati (che sono sempre di più): e complessivamente suggeriscono un graduale miglioramento della situazione.
I contagi in famiglia
Il fatto che i nuovi tamponi siano realizzati per lo più nelle Rsa contribuisce a “gonfiare” il numero di nuovi casi positivi diffuso ogni giorno dalla Protezione Civile, ma non spiega completamente il perché si continuino ad avere nuove infezioni da coronavirus, nonostante il “lockdown” imposto in tutta Italia. Ci sono almeno altri tre luoghi nei quali avvengono più contagi: le case private, gli ambienti di lavoro e gli ospedali, soprattutto quei reparti non destinati ai pazienti malati di Covid-19, dove le misure di sicurezza sono meno elevate e i dispositivi di protezione meno disponibili.
Questi tre luoghi, oltre a essere citati nell’ultimo rapporto sul coronavirus dell’Istituto Superiore di Sanità, sono stati individuati da medici ed esperti come posti dove il rischio di contagio è ancora elevato. A preoccupare in particolare sono i contagi intra-familiari, cioè quelli che avvengono tra persone che vivono nella stessa casa.
Quello dei contagi intra-familiari non è un problema nuovo: si è visto fin dalle prime fasi dell’epidemia, soprattutto in alcune delle zone più interessate, come la Val Seriana (in provincia di Bergamo) o alcuni paesi delle province di Cremona e Brescia. Ma molti contagi familiari, così come quelli che avvengono sui posti di lavoro, non sono inclusi nei dati ufficiali.
Sui luoghi di lavoro
Secondo gli ultimi dati dell’ISS gli ambienti lavorativi sono oggi il quarto luogo di esposizione al coronavirus: dall’inizio di aprile e fino a giovedì 23, solo il 4% dei nuovi contagi è stato collegato all’ambiente di lavoro.
C’è però da dire che i dati dell’ISS potrebbero non rispecchiare del tutto la realtà, e non solo per le dimensioni del campione considerato: potrebbero non considerare tutti coloro che hanno contratto il virus sul posto di lavoro e che non hanno fatto il tampone. Anche quello dei contagi sul posto di lavoro è da considerarsi quindi un dato parziale.
Inoltre da ieri, 4 maggio, hanno riaperto molte aziende, e occorre quindi capire l’evoluzione del dato in questo nuovo scenario.
In sintesi: la situazione sembra essere in miglioramento, ed è una tendenza confermata sia dai dati ufficiali, sia dalle testimonianze dei medici di famiglia e delle autorità locali, che raccontano il mondo dei malati di Covid-19 al di là dei tamponi. La maggior parte dei nuovi casi è legata alle positività nelle Rsa e nelle strutture sanitarie, ma anche i contagi intra-familiari continuano a incidere nel bilancio finale. Ora, con le prime riaperture, bisognerà osservare con più attenzione ciò che succede nei posti di lavoro.