Chissà cosa pensò Jurij Gagarin, il cosmonauta sovietico primo uomo nello spazio, quandò sorvolò Settimo a 380mila metri di altitudine. Aprile 1961, la nostra città era un fiorire di ciminiere, fabbriche, negozi. Crescevano i palazzi, nasceva il villaggio Fiat, il Borgo Nuovo diventava un quartiere. Macchine e camion correvano su quella che oggi è l’isola pedonale.
C’era la guerra fredda: qualcuno stava con i russi, altri con gli americani e la gara per lo spazio fu l’apice dello scontro, risparmiandoci un conflitto vero che avrebbe sterminato tutti e distrutto il mondo, Settimo compresa.
Jurij Gagarin non fu soltanto un cosmonauta. Fu l’umanità che sfidava il vuoto, fu tutti noi, anche chi ancora non c’era, lanciati verso l’infinito. Quello è il vero significato della sua impresa. Il cielo lo avevano già cantato Dante, Byron, Vivaldi. A modo loro Gesù Cristo e Ghandi. Ma lassù c’è andato lui, da solo. E se lo ha fatto lui, possiamo farlo anche noi.
Possiamo andare nello spazio con Gagarin anche noi settimesi, anche se di missili ci capiamo poco. Come allora i russi, del resto: il vettore di Gagarin aveva meno probabilità di tornare indietro delle caravelle di Colombo. Fu un’impresa al limite dell’incoscienza. Il computer di bordo del Vostok era meno potente di un Motorola di vent’anni fa. È stato bravo lui, perché quel primo antidiluviano microchip lo fece funzionare e pilotò quella specie di fuoco d’artificio a 380 chilometri dalla terra. Vero eroe del Novecento, fece un giro ai diecimila all’ora sapendo di avere più probabilità di rimanere lassù per sempre che di tornare a casa.
Per fare meglio gli americani dovettero inventarsi la Luna, nel vero senso della parola. La raggiunsero otto anni dopo, sempre che vi siano riusciti davvero… “A t’lu cuntu a t’ che sun andait an s’la lu-na!” sorrideva qualche nonno.
Fermiamoci un istante e guardiamo il cielo come il primo uomo capace di raggiungerlo, e contempliamone la bellezza, buio o stellato, colorato di sole al tramonto o da un pezzo di luna. Prendiamoci una notte e mettiamo il naso all’insù, astronauti anche noi, tenendo per mano le persone che amiamo. Pensiamo a chi vorremmo avere vicino. Primo o poi arriverà. O è già lassù.
Come Gagarin.