Ho visto piangere una donna, una più giovane di me, ho visto piangere una donna anziana, ho visto piangere mia madre. Così, la sera, mangio con la testa nel piatto, nel tentativo di sottrarmi alla brutalità delle immagini del telegiornale, al senso di straniamento, di estraneità, di compassione che queste mi suscitano. Quando vedo giovani russi armati e vestiti da soldato, vedo solo giovani. Così, quando vedo ucraini che stringono al petto donne e bambini, non vedo altro che uomini, donne e bambini.
«Avevano tanta sete», i soldati tedeschi in ritirata nella primavera del 1945 quando, per loro, tutto era ormai perduto. Quando l’ultima linea dell’esercito tedesco, quella che tagliava l’Italia in due, dividendo quella liberata da quella in cui ancora si combatteva, era saltata, i tedeschi passavano ininterrottamente di giorno e di notte tra boschi, poderi, campagne e radi paesi. Mia madre, giovane sposa, aveva una figlia e una gran paura. «Il 4 settembre 1943 – scriverà a 86 anni, nel suo quaderno di memorie – nacque la mia prima figlia Libera e, proprio quel giorno, sembrava che la guerra fosse finita. Il battesimo fu celebrato l’8 settembre. Fu così che io e Piero pensammo di chiamare nostra figlia Libera Pace, per l’avvenimento. Purtroppo la guerra continuò, anzi peggiorò». Negli anni della guerra mia madre aveva imparato a barattare, ma con i tedeschi acquartierati in cortile, non c’era più niente da scambiare e, con i partigiani lì vicino, da un momento all’altro c’era d’aspettarsi il peggio. «La cosa – scriverà mia madre – durò fino al 1945: c’erano in continuazione bombardamenti sia americani che inglesi. Avevamo costruito un rifugio nel bosco e la mattina presto vi si andava per essere al riparo. Così ho continuato a dare il mio latte a Libera finché durò la guerra perché avevo il timore di trovarmi senza nulla da darle da mangiare».
«I aviven ‘na grèn séda», dirà mia madre, perché i tedeschi sapevano di andare a morire. «éd là da l’áqua», oltre il Panaro, i partigiani ad aspettarli e a falciarli. «I avien ‘na grèn séda», quei giovani biondi, perché sapevano di andare a morire, e lei a tirare su dal pozzo secchi d’acqua per dar loro da bere con al mèschel (il mestolo). Ma la mescla è anche la parola che designa l’espressione del volto quando si sta per piangere.
Pietà, pena, compassione per l’odiato tedesco, non importava più che le avessero fatto paura, che suo marito avesse dovuto dormire alla macchia per mesi e mesi, né la paura del nonno che gli bruciassero la casa. Non importava più che «i tugnín» le avessero sottratto le uova fresche con le quali avrebbe potuto nutrire la figlia. «I avien ‘na grèn séda», quei giovani biondi, perché sapevano di andare a morire, e il Panaro si colorava di rosso.
«Vi posso assicurare che – scriverà mia madre – quando ti trovi in queste situazioni non hai paura, non hai paura di niente, non hai tempo per la paura. A volte guardo la televisione e vedo questa gente e anche i bambini che sono in guerra con un’arma in mano e non hanno paura di morire perchè pensano che debbano essere sempre gli altri a morire e non loro».
«I avien ‘na grèn séda», quei giovani biondi perché sapevano di andare a morire. Non c’è niente di grande nella guerra, non c’è niente di eroico nella guerra, in ognuna di quelle combattute tutti i giorni, sotto ogni latitudine del mondo.