La triste fine di Michela Dal Bello, 35 anni, piemontese di Aramengo (AT) e, per un periodo della sua vita, residente a Chivasso, nel torinese, lascia addolorati e sgomenti. La giovane donna, infatti, è mancata dopo otto anni di coma irreversibile, dovuti ai postumi di un incidente stradale avvenuto molto tempo prima.
Restare in coma irreversibile per anni ed anni è una sofferenza atroce per chi sta accanto a persone come Michela. La sua morte solleva ancora una volta il velo su un dilemma: lasciare in vita artificialmente una persona che, di fatto, non ha più una presenza in questo mondo, oppure accompagnarla nel trapasso per evitarle anni di limbo, di non-vita? In Italia il suicidio assistito non è consentito dall’ordinamento giuridico ed è condannato dalla Chiesa in quanto “…la vita e dono di Dio…” e “Solo Dio può darci e toglierci la vita”.
Credo che il discrimine fondamentale sia nella capacità residua del paziente di esprimere il proprio parere perché, in fondo, la vita non appartiene forse a chi la deve vivere? E credo che se si arriva a preferire la morte allora significa che si è arrivati a maturare la scelta di porre fine alla sofferenza e all’agonia.
Allora perché non concedere una morte dignitosa a chi soffre troppo ed è in grado di manifestare la volontà di porre fine alla propria vita? In fondo la parola greca eutanasia etimologicamente significa proprio questo: buona morte.