Mafia si può dire. 30 gennaio 1992, con la sentenza della Cassazione per il maxiprocesso viene confermato l’impianto del giudice Giovanni Falcone che aveva “seguito il denaro” e le rivelazioni di Buscetta: Cosa Nostra esiste ed è un’organizzazione criminale e gerarchica, tra legami familiari e riti iniziatici, col suo vertice a Palermo. Da vent’anni ne raccontano registi, scrittori, giornalisti. Ora non è più né un film, né un romanzo ma decine di condanne all’ergastolo per i boss e i loro affiliati.
La reazione è immediata, il 12 marzo il “vicerè” siciliano per conto di Andreotti, Salvo Lima, viene freddato all’uscita della sua abitazione. Caustico il giornale satirico Cuore titola “Salvo Lima come John Lennon, ucciso da un fan impazzito“. Ai funerali non si presenta nessun politico, eccetto Andreotti, visibilmente sconvolto per l’accaduto.
Intanto a Milano, un mese prima, all’”hotel della baggina” è emersa una piccola storia di mazzette che è solo l’inizio di un gigantesco domino di tangenti, corruzione e finanziamenti illeciti ai partiti che porterà al disfacimento della intera classe politica e imprenditoriale dominante. Sempre Cuore, un anno prima, aveva titolato “Scatta l’ora legale, panico tra i socialisti!”.
Inizio primavera 1992, la politica non capisce cosa sta succedendo, o forse è preoccupata per quello che potrebbe succedere, ma il disorientamento è diffuso. Ad aprile ci saranno le elezioni e la neonata Lega Nord mette paura.
Falcone invece ha capito benissimo: la Mafia è più forte di prima, nonostante la sentenza, e l’omicidio Lima è un chiaro messaggio per le Istituzioni. Buscetta glielo aveva sempre detto come si sarebbe chiuso il suo conto con Cosa Nostra e il magistrato ci avevo scherzato su, immaginando i suoi necrologi. “Sarò isolato e poi sarò ucciso” ripeteva. Tre anni prima con la bomba all’Addaura la Mafia c’era andata vicina. Sapeva di sapere troppo, non sui mafiosi, ma sui politici, sui funzionari dello Stato, sugli appalti spartiti, sui legami tra la rispettabile imprenditoria del nord e il denaro di Cosa Nostra. E dall’inchiesta Mani pulitearrivavano preoccupanti conferme: il sistema è marcio.
Accentando l’incarico del ministro Martelli come capo della Procura nazionale antimafia, sperava da Roma di essere ancora più incisivo. Ma la cupola mafiosa era già al lavoro.
Il 25 aprile, con 3 mesi di anticipo rispetto alla scadenza del mandato e un lungo discorso alla nazione, il presidente della Repubblica Cossiga si è dimesso, il primo ministro pro-tempre è rimasto Andreotti. Situazione sempre più delicata e tensione crescente. In sintesi, il momento propizio per muoversi, approfittando dello stallo delle Istituzioni. Infatti 13 maggio, il Parlamento con i rappresentati regionali non riesce ad eleggere il nuovo capo dello Stato. Il 16 maggio dopo 5 scrutini ancora fumata nera, scendono le quotazioni del favorito Forlani e prendono forma le aspirazioni di Andreotti.
Intanto, forse, dentro il cunicolo, sotto l’autostrada Punta Raisi-Palermo sono già pronti 500 chili di tritolo. La preparazione è stata lunga e meticolosa. Nulla deve andare storto. Se ad uccidere Cesare sono stati 20 o 22 senatori, di Giuda ne basta sempre solo uno. Ma anche Bruto è uomo d’onore. Nella zona di Capaci la visuale è ottima, basta sapere l’orario esatto (un uomo nelle alte sfere, un funzionario corrotto), poi è un gioco da ragazzi.
Falcone arriva all’aeroporto di Punta Raisi poco dopo le 17.00. Le 3 Fiat Croma della scorta ad aspettarlo, lui ha voglia di guidare, si mette al volante, con accanto la moglie. Poi il botto fortissimo, sembra Bogotà ma siamo a Palermo.
Due giorni dopo, il 25 maggio, un Parlamento quasi allo sbando mette da parte i giochi di palazzo ed elegge l’outsider Oscar Luigi Scalfaro come Presidente della Repubblica.
L’agnello è stato sacrificato per un nuovo punto da cui ripartire. Apparentemente una possibile soluzione per come vanno le cose di questo mondo. Per tutti, eccetto uno: Paolo Borsellino.