Quarant’anni fa l’Italia di Bearzot vinceva il suo terzo mondiale di calcio. Chi c’era, ricorda la Settimo di quei giorni, le fornaci delle fonderie a mille, perché col caldo l’acciaio si lavora meglio, il traffico, la stazione piena di gente, il centro con auto e TIR, i giovani in piazza della chiesa. Fino alle cinqo de la tarde. Poi giocava la nazionale. All’inizio così così e pochi se la filavano, ma dal 29 giugno si iniziò a suonare una musica che quarant’anni dopo fa ancora venire la pelle d’oca.
Due schiaffi all’Argentina di Maradona, mica un giocatore qualsiasi, poi il capolavoro col Brasile che pere ai gauchos ne aveva fatte tre. Il Brasile pareggiava e Rossi segnava, il Brasile ripareggiava e Rossi risegnava. Vincemmo noi, 3 a 2 nella partita più emozionante della storia del calcio. Forse perché avevamo sedici anni, forse perché l’Italia aveva bisogno di riscatto o perché il calcio si portava dietro un po’ di poesia, quelle di Spagna ’82 furono emozioni uniche. Ci sono momenti che per una comunità segnano passaggi importanti e una vittoria sportiva può cambiarne il cammino. Il nostro paese veniva da un periodo difficilissimo, il terrorismo, il terremoto in Irpinia, la P2, il calcio-scommesse. All’inizio del torneo, il volto della Nazionale italiana somigliava a quello dell’intero paese: scuro, depresso, impaurito. Si giocò protetti dal coraggio di Bearzot, cui Settimo dovrebbe dedicare una piazza, una strada, una scuola, un campo di gioco, fate voi, che riscattò se stesso e tutti noi trasformando le brutte sensazioni in gioia, vitalità, speranza, allegria.
La semifinale, contro la Polonia senza Boniek (ma noi non avevamo Gentile, che aveva fermato più con le cattive che con le buone Diego e Zico), fu una formalità, anche se per infortunio perdemmo Antognoni, il nostro Messi. Poi, l’11 luglio: ognuno di noi sa cosa successe, dov’era, con chi e cosa fece quella notte, quando scrivemmo tutti assieme il finale di un romanzo popolare irripetibile.
I giornali che a inizio torneo invitavano gli Azzurri a tornare a casa titolarono “EROICI”. El Pais scrisse di Rossi come “L’Hombre del partido”, l’emblema della rinascita. Per anni in giro per il mondo lo abbiamo sentito: “Italiano? Eh, paolorossi…” La chiave stava in quei puntini, tre come i gol scaraventati nella porta del Brasile. Era un modo per ammiccare, per dire io-so-chi-siete-voi-italiani. Il mundial non fu solo una Coppa, fu coraggio, unità, forza, sentimento. Com’era successo alla squadra in cui quasi nessuno all’inizio credeva.
E scendemmo in strada a milioni, semplicemente perché felic, mentre all’orizzonte cresceva la tv di Berlusconi, a Sanremo vinceva Fogli senza i Pooh, in Germania nasceva il primo bambino in provetta, l’Aids si affacciava sul mondo, la mafia imperversava in Sicilia e nelle nostre case arrivava il Commodore 64, il mondo nuovo. Cambiava un’epoca, stavamo per diventare grandi, tutto diventava futuro attraverso il Vecio Bearzot, il papà di tutti burbero e generoso, Dino Zoff che si tuffa e para l’impossibile, Tardelli e il suo Urlo, Oriali e la sua vita da mediano, Pertini al Bernabeu, Rossi simbolo del riscatto e il mio saggio papà che disse: “Andate a fare festa, che una roba così non la vediamo più”.
È solo calcio, è vero, ma abbiamo vinto noi.