Parliamo un po’ di sport. La nazionale iraniana femminile di sci alpino ha un’allenatrice donna, tale Samira Zargari e, a pensare la condizione in cui vivono le donne da quelle parti, potrebbe essere un bel passo avanti. Potrebbe, ma non è così. Infatti la poveretta, dopo anni di sacrifici e duro lavoro, non è potuta partire per accompagnare la propria squadra ai Mondiali di Cortina perché suo marito, nel rispetto di quello che gli consente la legge del suo paese, le ha negato il permesso.
Il tutto nel silenzio, o quasi, di chi dibatte sulle quote rosa del nuovo governo o si offende se ti dimentichi di usare il corrispondente femminile di “Sindaco”, “Assessore”, “Ministro” e via dicendo. Non è la prima volta che assistiamo ad una palese discriminazione sessista da parte di paesi che applicano la Sharia. Nel 1962 il Comitato Olimpico prese una giusta e rigida posizione contro l’apartheid, escludendo il Sudafrica dalle Olimpiadi e contribuendo, in qualche misura, alla tanto auspicata rivoluzione culturale di quel paese, portata poi a termine dalla splendida figura di Mandela. Forse la discriminazione nei confronti delle donne vale meno? Lo sport non accetta discriminazione, di nessun genere. Altrimenti non è sport, ma è la solita schifezza di ingiustizie taciute, o accettate, nel nome di compromessi ed acrobazie ideologiche votate a dimostrare che apparire “corretti” è più importante che esserlo.
È la stessa schifezza in cui, suo malgrado, è finito l’atleta altoatesino Alex Schwazer, accusato di essersi dopato e poi assolto, in seguito ad evidenza che i campioni di urina prelevati per gli accertamenti sarebbero stati alterati. Ma Schwazer era già risultato positivo una volta e, dunque, era un bersaglio facile, perché i cultori della “correttezza” non dimenticano gli errori e, soprattutto, non li perdonano. A chi, e perché, facesse comodo accusare Schwazer non lo sapremo mai, ma che la sua carriera, i suoi sacrifici, i suoi sogni, siano stati spazzati via per sempre è chiaro per tutti. Proprio come quelli di Samira. Propongo anche per lei una panchina rossa, rossa come la passione che a lei, e a tante altre donne come lei, hanno calpestato senza pietà. A Schwazer dedicherei una panchina bianca, come la purezza che il ragazzo aveva avuto la forza di ricostruirsi e che qualcuno gli ha imbrattato in modo indelebile. Ce ne starebbe bene ancora una verde, come la speranza…
Ma verrebbe fuori la bandiera di un Paese che, dopo anni di richiami da parte del Comitato Olimpico Internazionale, è riuscito ad ottenere di poter partecipare ai Giochi Olimpici all’ultimo giorno disponibile, con un emendamento firmato da un Presidente del Consiglio già esautorato; un Paese il cui nuovo Presidente del Consiglio ha pensato di non dedicare più un Ministero allo Sport e che si è ricordato di citare l’importanza della pratica sportiva solo durante il discorso al Senato, dopo che, probabilmente, qualcuno gli aveva fatto notare che, magari, non sarebbe stato male farlo anche alla Camera; un Paese che, nell’indifferenza generale, sta per varare una legge di riforma del lavoro sportivo che rischia di far chiudere le associazioni di base, quelle che, con l’impegno quotidiano, tengono insieme i nostri ragazzi e provano concretamente a trasmettere loro valori come il sacrificio o la lealtà, parole di cui altri si riempiono solo la bocca. No, lasciamo perdere, niente panchina verde. Non c’è più speranza.